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OZONO-TERAPIA

L'articolo riportato di seguito nasce con la collaborazione di uno dei medici dentisti del nostro Centro Dentistico, dott. Massimiliano De Biase, con l'Ambulatorio di Patologia e Medicina Orale della Clinica Odontoiatrica e Stomatologica dell’Università degli Studi di Milano - Istituti Clinici di Perfezionamento.

Ozono-terapia in odontostomatologia


Esperienze Preliminari

 

N. Di Ceglie, S. Batia
M. De Biase, D. Ruffoni
F. SpadarI, F. Santoro
Università  Università degli Studi di Milano Istituti Clinici di Perfezionamento ICP - Milano
Clinica Odontoiatrica e Stomatologica Direttore: prof. F. Santoro

 

Introduzione

Da molti anni, numerosi studiosi e ricercatori legati al mondo delle scienze chimiche, fisiche e biologiche sono a conoscenza dei complessi fenomeni legati alla molecola di ozono (O3). È però solo da circa mezzo secolo che le numerose applicazioni terapeutiche e le possibili implicazioni cliniche dell’O3 hanno stimolato sia il mondo dei clinici sia quello dei biologi. Grazie a una serie di ricerche sperimentali e applicative, possiamo oggi affermare che le applicazioni dell’O3 medicale hanno raggiunto risultati soddisfacenti nell’ambito di molte discipline sia mediche che chirurgiche. Tuttavia, in campo odontostomatologico le indicazioni cliniche e i risvolti applicativi sono ancora poco conosciuti e in letteratura sono riportate esperienze terapeutiche non sufficientemente esaurienti e documentate.
L’O3 è un potente ossidante in grado di interagire sia come modulatore metabolico e immunitario, sia come agente antimicrobico. In campo medico l’O3 è stato utilizzato per la prima volta durante la prima guerra mondiale. Diversi soldati con ferite d’arma da fuoco e da taglio vennero trattati con l’O3 medicale per contrastare e scongiurare complicanze gangrenose e settiche. Successivamente, verso gli anni ’50 gli interessi nei confronti dell’O3 si sono estesi a diverse specialità e divenne oggetto di studi scientifici e clinici condotti in Germania, Svizzera, in alcuni paesi dell’Europa orientale e negli stessi Stati Uniti d’America.
È più opportuno e legittimo parlare di ossigeno-ozono-terapia (O2-O3-terapia) perché l’O3 medicale di fatto è una miscela di ossigeno (O2) e O3 in cui le concentrazioni di O3 sono di 40 volte inferiori rispetto alle concentrazioni utilizzate in ambito industriale. In ambito medico si sono sperimentate e proposte diverse modalità di somministrazione quali quella parenchimale (intramuscolare, sottocutanea, intracavitaria, intrarticolare) (1, 2), topica (cutanea, mucosa) (1, 3, 4) e l’auto-emo-tra-sfusione (2, 3).
Dall’analisi delle varie esperienze terapeutiche in più settori medico-chirurgici, possiamo affermare e confermare che l’O2O3-terapia per contatto potrebbe essere vantaggiosamente proposta al mondo dell’odontoiatria e della stomatologia e affiancarsi sia come presidio primario sia come supporto alle tradizionali terapie.
Presso l’Ambulatorio di Patologia e Medicina Orale della Clinica Odontoiatrica e Stomatologica dell’Università degli Studi di Milano Istituti Clinici di Perfezionamento ICP, si è pensato di poter avviare e programmare un protocollo di ricerca clinico a riguardo delle possibili applicazioni terapeutiche dell’O2-O3-terapia locale.

 

Obiettivo del lavoro

Gli obiettivi e gli scopi del presente lavoro sono stati quelli di presentare, attraverso uno studio preliminare su un gruppo di pazienti selezionato, gli effetti biologici e i risultati clinico-terapeutici locali sui tessuti orali dell’O3 medicale, attraverso l’utilizzo di un nuovo tipo di dispositivo terapeutico in grado di sviluppare e veicolare localmente l’O3 stesso. La popolazione indagata comprendeva pazienti affetti da diverse tipologie di affezioni oro-dentarie con caratteri di tipo degenerativo e infiammatorio acuto e cronico.

 

Ozono ed effetti biologici dell’ozono medicale.

L’O3 è una forma allotropica instabile dell’O2. È presente nell’atmosfera in piccole quantità con una concentrazione media di 0,02 pari per milione (ppm). Viene prodotto nella stratosfera attraverso un fenomeno definito effetto Chapman (tabella I). È una molecola instabile e già a temperatura ambiente si decompone in O2. Il suo odore è percettibile durante un temporale. L’O3 è uno dei maggiori ossidanti presenti in natura ed è altamente reattivo verso i composti organici. È nota la sua tossicità a concentrazioni superiori a 50 ppm, che si manifesta in primis con un’irritazione delle vie aeree superiori. In ambito industriale vengono sfruttate le sue proprietà per la disinfezione dell’acqua e dei cibi.
L’ozono medicale è una miscela di O2-O3 in cui O3 è presente in concentrazioni tali da portare alcuni vantaggiosi effetti sulle cellule e sui tessuti dell’organismo umano.
L’O3 ha uno spiccato pleiotropismo. È ormai accertato il suo ruolo nella regolazione della funzionalità degli eritrociti, dei leucociti, delle piastrine e delle cellule endoteliali che rivestono i vasi sanguigni.


A livello degli eritrociti l’O3 reagisce con i fosfolipidi di membrana rendendo le cellule più deformabili e facilitando la microcircolazione (effetto reologico). Inoltre, stimola la sintesi di 2-3-difosfo-glicerato, che modifica la struttura dell’emoglobina favorendo così il rilascio di O2 favorendo il trofismo locale nei tessuti sofferenti (2, 3, 5).
A livello delle cellule endoteliali l’O3 induce la sintesi e il rilascio di ossido nitrico (NO), un vasodilatatore endogeno, attraverso l’attivazione di specifici enzimi come l’ossido nitrico sintetasi (NOS).
La conseguenza diretta delle interazioni emo-circolatorie dell’O3 è una migliore ossigenazione dei tessuti periferici (effetto eutrofico). Ciò comporta una riduzione dell’acidosi metabolica, dell’ipossia e un’accelerazione dei processi di guarigione nei tessuti ischemici e danneggiati. Risultati terapeutici interessanti si sono ottenuti nel trattamento di patologie distrofico-degenerative (2, 5).
A livello del sistema immunitario l’O3 agisce stimolando i vari componenti cellulari ed espletando azioni induttive e modulatorie.
A livello dei leucociti polimorfonucleati, sembra attivare e favorire i processi di diapedesi e l’attività di fagocitosi, aumenta il rilascio di citochine stimolanti la risposta opsonizzante, come le interleuchine (2, 4, 6, 7).
Per quanto riguarda i linfociti l’O3 induce la sintesi di interferone Á, fondamentale contro le infezioni virali.
Ciò si traduce in una migliore reattività dell’organismo nei confronti di malattie infettive acute e croniche, a eziologia batterica e virale, aprendo la possibilità di una nuova terapia contro l’HIV (effetto immunomodulante) (8, 9).
I processi ossidativi indotti dall’O3 agiscono indirettamente sulla quota di colesterolo ematico decrementando il rischio di vasculopatie ostruttive periferiche e centrali (10).
Uno dei meccanismi biochimici più importanti dell’O3 medicale è la stimolazione dei sistemi antiossidanti endogeni. Essendo un ossidante, l’O3 in concentrazioni appropriate produce uno stress ossidativo transitorio a livello dei tessuti, i quali reagiscono con adeguati sistemi di difesa che comprendono sistemi enzimatici come le catalasi e le super-ossido-dismutasi e non enzimatici come il glutadione (GSH). L’effetto è un adattamento ai diversi stress ossidativi ossia una protezione dell’organismo contro i radicali liberi dell’O2 sia durante i processi fisiologici di invecchiamento sia nei processi eziopatogenetici di alcune patologie degenerative (effetto anti-ossidante) (5, 11, 12).

 

Impieghi dell’ozono in odontostomatologia

Queste premesse relative al comportamento dell’O3 nell’ambito dei numerosi processi chimici e bio-metabolici, portano a considerare l’O3-terapia locale un presidio terapeutico che sarebbe in grado di aiutare l’odontoiatra nelle diverse esigenze clinico-terapeutiche. Tuttavia, come già precedentemente accennato, nella letteratura specializzata internazionale esistono poche e frammentarie esperienze terapeutiche, quasi tutte non perfettamente documentate e riproducibili.
Tuttavia, ricerche maggiormente attendibili e documentate vengono riportate in lavori scientifici relativi ad applicazioni dell’O3 in altre specialità medico-chirurgiche. Il nostro compito iniziale è stato quello, infatti, di analizzare le documentazioni rintracciabili in archivi bibliografici, comparando le proprietà biochimiche e il comportamento nei vari distretti corporei e tissutali dell’O3. Questo approccio sistematico alla nuova problematica ci ha permesso, in modo critico e consapevole, di valutare le effettive applicazioni terapeutiche nel campo odontostomatologico.
A oggi, possiamo ritrovare in letteratura diverse esperienze applicative dell’O3 medicale in odontoiatria, con differenti modalità d’uso e obiettivi terapeutici. Potendo individualizzare e sintetizzare le esperienze maggiormente significative, l’O3 medicale è stato utilizzato localmente come antisettico locale del cavo orale (1, 2), nella disinfezione di manufatti protesici di tipo rimovibile (13, 14) e nella disinfezione e nei pre-trattamenti delle cavità cariose e dei canali radicolari (15).
Attraverso le numerose sperimentazioni e le applicazioni cliniche dell’O3 medicale nel trattamento delle ulcere periferiche degli arti inferiori, l’uso topico dell’ossigeno triatomico ha dimostrato una serie di importanti meccanismi terapeutico-preventivi identificabili con effettivi azioni tipo battericida e microbicida, induzione e miglioramento della diffusione locale delle emazie con un miglioramento della ossigenazione tissutale globale, una vasodilatazione secondaria non dipendente e vincolata dai processi flogistici, una spiccata neo-angiogenesi e l’attivazione e il rilascio di fattori di crescita favorenti la guarigione (2). L’analisi di queste proprietà ed espressioni dell’O3 medicale nei tessuti più o meno compromessi da processi flogistici e degenerativi, indurrebbero ad accettare positivamente alcune esperienze terapeutiche a livello delle mucose di rivestimento e dei tessuti molli orali. Inoltre, in letteratura sono indicate spiccate azioni immuno-modulatrici e immunostimolanti a livello del cavo orale, con un incremento della secrezione di IgA dopo trattamento topico con sciacqui con acque ozonate (16).
Pertanto, possiamo definire che dal punto di vista clinico-applicativo la miscela O2-O3 in ambito odontostomatologico sarebbe particolarmente indicata nel trattamento di patologie infiammatorie acute e croniche delle mucose e dei tessuti molli, nel miglioramento del tropismo locale in affezioni degenerativodistrofiche, nel trattamento delle lesioni cariose a carico degli elementi dentari decidui e permanenti e interventi preventivi e curativi nei confronti di lesioni parodontali.
Presso il nostro ambulatorio abbiamo a disposizione un’apparecchiatura, l’OzonyTron®, in grado di trasformare, attraverso una serie di terminali intercambiabili e con diverse morfologie, l’O2 in O3 (fig. 1).

Effetti sulla microflora patogena.

La causa principale della malattia parodontale (MP) e di altre affezioni flogistiche del cavo orale, è legata alla presenza di microrganismi patogeni, rappresentati soprattutto da colonie batteriche. La microflora patogena sarebbe in grado di colonizzare attivamente aree più o meno anfrattuose e primariamente lesionate e organizzarsi (per esempio nella placca batterica) in modo tale da confutare l’azione dei diversi farmaci e delle tradizionali terapie eziologiche. È possibile che l’O3 svolga un ruolo terapeutico positivo, contribuendo a ossidare le noxae patogene responsabili della MP stessa. Questo significa che con l’O2-O3-terapia non riportiamo i tessuti parodontali a una condizione anatomica e funzionale normale, ma possiamo certamente contrastare un processo flogistico cronicizzante che, di fatto, rappresenta la causa della perdita di supporto parodontale profondo.
Nel paziente parodontopatico si rileva che frequentemente la flora autoctona risulta qualitativamente diversa rispetto a un soggetto sano. Nel soggetto affetto da malattia parodontale più o meno avanzata si ha un viraggio qualitativo verso una flora di tipo anaerobico con la presenza prevalente di batteri gram negativi. Gli effetti locali dell’O3 sarebbero principalmente riferibili a una serie di reazioni e meccanismi che determinano la lisi batterica. Da una parte, si viene a verificare un aumento della concentrazione libera di O2 all’interno delle tasche parodontali, determinando un micro-ambiente altamente sfavorevole e deleterio per la sopravvivenza dei batteri gram negativi e anaerobi, dall’altra, la liberazione di specie reattive dell’O2 (ROS) sarebbe in grado di intaccare le componenti lipidiche della membrana batterica determinando, di conseguenza, una lisi batterica immediata. Nel trattamento delle tasche parodontali viene consigliato l’uso del terminale a morfologia appuntita. I tempi di esposizione e la potenza di emissione risultano direttamente proporzionali alla formazione locale di O3. La potenza può essere dosata attraverso la selezione di valori compresi da 1 a 3. Per quanto riguarda la durata delle applicazioni locali all’interno della lesione parodontale, possono essere sufficienti tempi compresi da 1 a 2 minuti (fig. 2).
Grazie a un aumento della microcircolazione locale avremo una miglior ossigenazione dei tessuti, una risposta vasale allo stimolo infiammatorio aumentata. Ne deriva, di conseguenza, un netto miglioramento dell’attività immunitaria cellulo-mediata e delle attività delle cellule polimorfonucleate. Anche le capacità antiossidanti dell’O3-terapia, attraverso un incremento del GSH, possono favorire i processi di guarigione della MP. Alcuni studi hanno evidenziato una diminuzione delle capacità antiossidanti a causa di una deplezione di GSH sulla superficie delle cellule dell’epitelio gengivale, soprattutto in corso di parodontopatie croniche. La fisiologica concentrazione di GSH nel solco gengivale rappresenta infatti un’importante difesa antiossidante e antinfiammatoria, alla pari delle molecole che costituiscono il fluido crevicolare (17). Sperimentalmente, sia in vivo sia in vitro, si sono dimostrate le spiccate attività antimicrobiche dell’O3 a livello delle cavità cariose, sia in quelle limitate alle superfici smaltee sia in lesioni più o meno profonde nella compagine dentinale. Una disinfezione delle cavità con O3, prima e dopo la detersione con strumenti rotanti, contribuirebbe a un trattamento preventivo e terapeutico sufficientemente idoneo all’applicazione locale di materiali da ricostruzione dentaria, evitando l’utilizzo di prodotti protettivi e isolanti.
Per quel che riguarda il trattamento dei canali radicolari, la letteratura specializzata non riporta esperienze e pubblicazioni scientifiche sufficientemente documentate dal punto di vista clinico e microbiologico. Gli effetti antimicrobici dell’O3, sia battericida che antivirale, potrebbero essere considerati come un ottimo e valido supporto operativo ai tradizionali irriganti canalari come il perossido d’idrogeno (H2O2) e l’ipoclorito di sodio.
Come presidio antisettico l’O3 locale potrebbe vedere indicazione anche nel trattamento dei siti chirurgici, sia nelle fasi preche post-intervento. Esso ci permetterebbe di preparare un campo operatorio privo di una flora microbica potenzialmente patogena, consentendo l’attuazione di procedure chirurgiche più o meno invasive con un diminuito rischio di complicanze settiche locali e sistemiche. Di conseguenza si assisterebbe a tempi di guarigione sensibilmente accorciati, una diminuzione significativa delle complicanze locali post-intervento e un miglior comfort per lo stesso paziente. Inoltre, gli effetti antalgici nelle sedi trattate sarebbero da riferire a un’azione antiedemigena locale, a una miglior risposta immunitaria agli stimoli lesivi locali e a una compliance vascolare nettamente migliorata.
Per quanto riguarda le patologie a carico dei tessuti molli e di rivestimento del cavo orale, sono documentate alcune esperienze a riguardo degli effetti locali dell’O3 nei confronti di patologie infettive ricorrenti, come le infezioni da HSV-1 e patologie ulcerative acute come la stomatite aftosa ricorrente (SAR). Alcuni Autori hanno studiato le possibili azioni dell’O3 nelle patologie con matrice autoimmunitaria, come il lichen delle mucose orali. Tuttavia, i risultati delle stesse ricerche e gli spunti clinico-terapeutici non permettono un’analisi puntuale sulla effettiva efficacia dell’O3 topico.

Materiali e metodi

Presso l’Ambulatorio di Patologia e Medicina Orale della Clinica Odontoiatrica e Stomatologica dell’Università degli Studi di Milano Istituti Clinici di Perfezionamento, dal mese di gennaio 2002 si è resa disponibile una nuova apparecchiatura in grado di sviluppare ed emettere localmente O3 (OzonyTron®, MyMed Germania 1998). Questo strumento è alla portata del singolo professionista grazie a una semplice ergonomicità e un semplice utilizzo.
Lo strumento presenta un dispositivo di accensione e di un variatore che permette una regolazione della potenza di emissione di O3. Identificando con una numerazione progressiva i vari gradienti di potenza, con il numero 1 e 2 si sviluppa una potenza debole, con il 3 media e con 4 e 5 potenze ed emissioni massime di O3. La maneggevolezza della sonda è data da un filo estensibile, sul cui manico si inseriscono i vari terminali in vetro. All’interno degli elettrodi (fig. 3), costituiti da una doppia camera in materiale vetroso, si trova una miscela di gas costituita da argon e neon, con una pressione stimata di 4 mBar. Il passaggio di corrente elettrica permette la trasformazione di O2 in O3 al contatto della superficie da trattare.
L’elettrodo a punta viene indicato per il trattamento delle tasche parodontali e dei canali radicolari, mentre le sonde a forma sferica e piana sarebbero riferibili per trattamenti di aree più estese e superficiali, come quelle muco-cutanee.
Sono da considerare alcune controindicazioni nell’utilizzo dell’OzonyTron®. A questo riguardo sarebbero da segnalare i pazienti portatori di cardio-stimolatori (pace-maker), i soggetti affetti da bronco-pneumopatie croniche ostruttive e asma bronchiolare, la gravidanza, le cardiopatie aritmogene e le patologie neurologiche di tipo convulsivante.

In genere, le applicazioni locali con OzonyTron® risultano prive di alcun effetto lesivo e i pazienti non lamentano nessun tipo di disagio. Tuttavia, abbiamo potuto constatare una modestissima risposta di tipo dolorifico e una sensazione fastidiosa quando le sonde attive entrano a contatto, durante il trattamento topico, con gli elementi dentali. È possibile, inoltre, che alcuni pazienti possano avvertire un senso di “scossa”, anche se tale evenienza risulta più frequente in caso di recessioni gengivali.

Protocollo di ricerca

Dopo un primo approccio con l’attrezzatura e identificate le possibili potenzialità, si è attivato un protocollo preliminare di ricerca spontaneo, di tipo indagativo e conoscitivo, sulle effettive azioni dell’O3 a uso locale. Il protocollo di ricerca ha previsto la selezione di 56 pazienti, di cui 12 erano maschi e 44 di sesso femminile. I pazienti presentavano età comprese tra i 38 e gli 82 anni, con una media di 59 anni.
I pazienti sono stati suddivisi in 3 gruppi di studio (fig. 4).

Il gruppo 1 era composto da 22 pazienti affetti da patologie degenerative, di cui 15 di sesso femminile e 7 di sesso maschile. L’età media era di 61 anni, presentando età comprese tra i 40 e gli 82 anni. In questo ambito, abbiamo considerato l’inclusione di soggetti tutti con diagnosi certa di sindrome della bocca bruciante (SBB) o, più comunemente conosciuta, anche come burning mouth syndrome. Nel gruppo 2, composto da 14 pazienti di cui 5 soggetti di sesso maschile e 9 di sesso femminile, abbiamo inserito pazienti affetti da patologie a carico dei tessuti di sostegno dentario. I pazienti presentavano età comprese tra i 38 e i 69 anni con una media di 57,4 anni. Infine, nel gruppo 3 abbiamo identificato una casistica composta da 20 soggetti, dove un solo paziente era di sesso maschile, che denunciavano sintomatologie algiche atipiche nelle regioni oro-maxillo-facciali. L’età media risultava di 64,2 anni con età comprese tra i 49 e gli 80 anni.

 


Gruppo 1: sindrome della bocca bruciante (SBB).

Nel gruppo 1, i pazienti presentavano una diagnosi clinica accertata di SBB. Tutti i pazienti indagati presentavano caratteristiche cliniche, anamnestiche e sintomatologiche simili e sovrapponibili. Ogni paziente è stato sottoposto a indagini previste dal protocollo di ricerca che comprendevano: un test psico-comportamentale, un test per la valutazione della componente dolorifica locale (Mac Gill Pain Questionare), la valutazione dell’intensità del dolore su una scala visualogica (VAS) e una visita specialistica neurologica. Inoltre, l’iter diagnostico prevedeva una serie di esami clinici per poter escludere altri quadri patologici coinvolti nella genesi di possibili sintomatologie urenti come l’esame citologico, le indagini microbiologiche, un prelievo bioptico, l’esame isto-morfologico e gli esami ematochimici. È doveroso specificare che gli aspetti eziopatogenetici e, soprattutto i risvolti terapeutici della SBB, non sono del tutto ancora chiariti.
Dal punto di vista clinico-classificativo si sono distinti 3 tipi di quadri sintomatologici. Il tipo 1 include pazienti che non manifestano sintomi al risveglio e la comparsa del “bruciore orale” avviene progressivamente durante la prima metà della giornata e tende a esacerbarsi verso le ore serali. La sintomatologia di tipo 2 comprende pazienti che riferiscono il “bruciore orale” costantemente per tutto il giorno. Il tipo 3 è caratterizzato da una sintomatologia urente locale di tipo intermittente e non continuativa, in cui in alcuni periodi il bruciore è praticamente assente. La forma più frequente è da considerarsi quella di tipo 2. Fattori psicologici sembrano frequentemente associati alla SBB, tanto che molti studi mettono in evidenza un rapporto diretto tra stato psicologico del paziente e intensità del dolore. Si è altresì dimostrato che molti dei pazienti presi in esame con sintomatologia urente, riferibili soprattutto al tipo 2, mostrano fattori associati di tipo psico-patologico come ansia, depressione e addirittura cancerofobia (18). Alcuni aspetti sintomatologici e l’esacerbazione della sintomatologia bruciante dopo l’assunzione di cibi caldi (abbassamento della soglia di sensibilità agli stimoli termici), sembrerebbero essere l’espressione di una neuropatia periferica. Attualmente, alcuni protocolli sperimentali hanno dimostrato che alcune forme di SBB possono essere associate a una sofferenza delle fibre nervose periferiche di piccolo calibro, soprattutto quelle amieliniche terminali di tipo C. È possibile che l’assone, a causa di insulti di varia natura, possa andare incontro a lesioni che, a loro volta producono una risposta infiammatoria locale. A questo livello, vengono a essere liberate alcune citochine e la sostanza P, provocando dolore bruciante e iperalgesia.

Le lesioni nervose sembrano essere amplificate dall’azione di alcune cellule quali i mastociti che presentano nel loro citoplasma numerose granulazioni contenenti molecole pro-infiammatorie quali l’istamina e la serotonina (19). Un’altra ipotesi eziopatogenetica, che potrebbe essere strettamente correlata alla neuropatia periferica, vede la possibilità di un disturbo vaso-reattivo loco-regionale come causa della sintomatologia bruciante. Tutti i pazienti inseriti nel protocollo di ricerca con una diagnosi accertata di SBB, secondo la classificazione di Lamey e Lewis del 1989 (20), sono inquadrabili in una sintomatologia di tipo 2. Inoltre, l’analisi su scala visualogica (VAS) dell’entità del dolore bruciante, evidenziava più del 50% dei pazienti con un quadro sintomatologico rilevante (fig. 5).

Gruppo 2: parodontopatie.

I 14 pazienti appartenenti al gruppo 2 presentavano quadri di patologie infiammatorie a carico dei tessuti parodontali con quadri clinici eterogenei. Nel 35,8% dei pazienti (n=5) la diagnosi clinica dimostrava la presenza di una parodontopatia localizzata ai quadranti superoposteriori. Nel 7,1% dei pazienti la diagnosi clinica ha stabilito la presenza di gengivite marginale diffusa. Infine, nel 57,1% dei pazienti (n=8) si è diagnosticata una forma parodontopatica generalizzata.
Ogni paziente veniva sottoposto a esame clinico del cavo orale che prevedeva un accurato esame parodontale con la compilazione di un’apposita cartella di valutazione clinica. Venivano indagati i valori della profondità di sondaggio delle tasche, gli indici di sanguinamento e di mobilità dentaria. Ogni tasca parodontale veniva valutata nei due versanti: vestibolare e linguale o palatale. Inoltre sono state valutate l’entità delle lesioni parodontali nelle tre componenti (mesiale, centrale, distale). L’esame parodontale ha evidenziato, in più del 35% dei pazienti, tasche con una profondità di sondaggio superiore ai 3 mm, mentre nel 6% mostrava una profondità di sondaggio superiore ai 6-7 mm. Nel 75% dei pazienti la raccolta dei dati anamnestici e clinici ha evidenziato fattori di rischio fortemente associati alla MP come fumo di tabacco (più di 10 sigarette al dì), un’igiene orale scarsa e fattori locali irritanti (otturazioni debordanti e protesi incongrue). L’esame clinico e il sondaggio non mostravano coinvolgimenti delle forcazioni dentarie e gli indici di mobilità erano pressoché assenti. Il 23% dei siti esaminati presentava un significativo sanguinamento al sondaggio.

Gruppo 3: dolori atipici in sede orale.

Il gruppo 3 era costituito da 20 pazienti affetti da dolori atipici in sede orale. Tutti i pazienti selezionati riferivano intensa sintomatologia dolorosa in sede di creste edentule.
Approfondimenti clinico-obiettivi, visite neurologiche per escludere patologie a carico del sistema nervoso centrale e periferico, indagini radiologiche mirate e altri sistemi presidi diagnostici come la tomografia assiale computerizzata (TAC) e la risonanza magnetica nucleare (RMN) non hanno permesso di stabilire con puntualità l’origine e la genesi delle sintomatologie dolorifiche. Tutti i pazienti sono stati sottoposti a visita e indagini diagnostiche gnatologiche per poter escludere una genesi algica di tipo disfunzionale. Inoltre, il 15% dei pazienti del gruppo 3 presentava quadri di alterazione della sensibilità dolorifica locale con la presenza di parestesie o disestesie più o meno diffuse alle regioni orali limitrofe.
Il follow-up, comune ai tre gruppi e articolato nelle sue varie fasi presso il nostro ambulatorio, comprendeva una serie di visite preliminari sino al completamento della documentazione clinica necessaria. Per i tre gruppi abbiamo soddisfatto queste esigenze con incontri settimanali per circa un mese (numero 3-4 incontri). Il protocollo di ricerca prevedeva la compilazione di una cartella clinica e di una modulistica specifica per la rilevazione dei risultati della O3-terapia topica. Attraverso un’apposita scheda di valutazione, veniva stabilito un giudizio analitico sull’evoluzione del quadro sintomatologico e clinico. Ogni singolo paziente, appartenente ai vari gruppi di studio, ha sottoscritto un consenso informato. La standardizzazione e la programmazione del follow-up di ricerca prevedevano una serie di appuntamenti differenziati nei vari gruppi di pazienti e una serie di visite di controllo per registrare e valutare i risultati terapeutici avvenuti. Inoltre, gli operatori risultavano i medesimi per i 3 gruppi di studio indagati. Le modalità di applicazione, i tempi e le metodiche utilizzate per i diversi gruppi di ricerca vengono riportati nella tabella II.

 

Tabella II Parametri operativi standard e tipologie di sonde utilizzate nei nostri gruppi di studio

 

Patologie

Tipo di sonda

Potenze

Tempi di esposizione (in sec.)

Sedi più frequenti trattate

SBB

Piatta-sferica

2-3

120-180

Dorso linguale

Malattia parodontale

Punta

2-3

60 (per tasca)

Settori posteriori

Patologie dolorose atipiche

Piatta-sferica

2-3

120

Creste alveolari

Piatta-sferica

2

120

Lingua

Sferica

2-3

120

Diffuse

 

 

 

Risultati

Nei pazienti affetti da SBB i risultati ottenuti possono essere così schematizzati: il 24% dei pazienti avrebbe riferito un miglioramento della sintomatologia locale urente successivamente alla prima applicazione con O3; il 25 % dei pazienti trattati, dopo la seconda applicazione; l’11% dopo la terza/quarta applicazione. Nel restante 40% dei pazienti, la sintomatologia rimaneva invariata e non abbiamo potuto osservare un’evoluzione, né in senso migliorativo né in senso peggiorativo del quadro sintomatologico locale. La valutazione dei risultati ottenuti su scala visualogica del dolore urente (VAS) viene riportata nel grafico di figura 6.

I dati emersi, pertanto, denunciano un discreto successo della terapia topica con O3. Tuttavia, la valutazione dei risultati deve essere interpretata alla luce delle condizioni psicologiche dei pazienti affetti da SBB. La percentuale di successo da noi ottenuta potrebbe essere interpretata non particolarmente significativa, considerando il numero della casistica clinica presa in considerazione e le costanti distorsioni percettive ed emotive dei pazienti affetti da SBB che considerano e vivono la loro malattia con un rapporto dolore/benessere alterato.
Nei pazienti con MP i risultati sembrerebbero più importanti e meritevoli di ulteriori attenzioni e approfondimenti (fig.7.). Il 32,5 % delle tasche parodontali trattate ha mostrato una diminuzione nella profondità di sondaggio di 1 mm. Il 12% mostrava un recupero di 2 mm, mentre nel restante 12,5% abbiamo rilevato un recupero di più di 2 mm. Tuttavia, nel 41% dei siti trattati non abbiamo riscontrato nessuna evoluzione del quadro clinico e la profondità di sondaggio rimaneva invariata durante i controlli.
Un miglioramento delle lesioni parodontali con una significativa diminuzione della profondità di sondaggio in tempi relativamente brevi, dimostrerebbero le effettive capacità antinfiammatorie locali e le attività trofico-metaboliche dell’O3 medicale. Al termine del follow-up, le tasche con una profondità di sondaggio uguale o superiore a 3 mm scendevano al 17%. Inoltre, un’evoluzione non considerabile positiva delle lesioni parodontali e un mancato miglioramento dei parametri clinicoobiettivi indagati, si è evidenziata solo nel 2% del totale dei siti esaminati.
Nell’ambito della casistica clinica relativa al trattamento di pazienti affetti da patologie dolorose, i risultati ottenuti sono stati i seguenti: il 20% dei pazienti al termine del follow-up avrebbe riferito una regressione significativa della sintomatologia, soprattutto nelle sedi postestrattive; il 37% dei pazienti riferiva un modesto miglioramento della sintomatologia algica locale; il 43% di pazienti del gruppo 3, al termine del followup non avrebbe ottenuto nessun miglioramento sintomatologico. Inoltre, si è osservato che nei pazienti con quadri di disestesia o/e parestesia, non si presentavano significativi miglioramenti al termine del follow-up di ricerca.

Discussione

I risultati sino a ora ottenuti in questo studio clinico vanno interpretati come dati preliminari ancora in fase di valutazione e necessitano certamente di ulteriori approfondimenti. Pertanto si possono formulare le seguenti considerazioni. L’O3-terapia locale può essere ritenuta una terapia ancora in fase di evoluzione e di studio con effetti tossici limitati ai tessuti orali e all’organismo. Sembrerebbe che l’O3, nel trattamento di patologie dolorose, abbia un effetto dose-tempo dipendente, ossia indurrebbe un buon miglioramento sintomatologico nelle ore successive alla somministrazione (tra le 12-72 ore successive), con un riscontro obiettivo e concreto da parte del paziente. Le considerazioni variano da caso a caso. Infatti, per una patologia come un dolore cronico atipico si ipotizza che una somministrazione, quantomeno prolungata nei mesi e con un intervallo di almeno 3-4 giorni tra una somministrazione e l’altra, possa condurre a risultati statisticamente significativi. Per una lesione di tipo chirurgico, come siti post-estrattivi, sembrerebbero e sarebbero necessarie poche applicazioni di O3, anche a intervalli più lunghi. Nel primo caso infatti l’O3 contribuirebbe ad alzare la soglia del dolore e a ridurre l’espressione di una flogosi cronica. Nel secondo caso invece l’O3 sarebbe utile nel velocizzare il processo di guarigione dei tessuti, agendo sia a livello epiteliale sia nei tessuti di origine mesenchimale.
A livello delle fibre nervose periferiche l’O3 sembrerebbe svolgere un ruolo terapeutico positivo nella risoluzione di quadri flogistici e degenerativi cronici (neuropatie periferiche). Tuttavia, in quadri clinico-sintomatologici correlabili a lesioni assonali periferiche e alle stesse terminazioni amieliniche con disturbi della sensibilità, non abbiamo evidenziato evoluzioni positive e terapeutiche meritevoli di considerazioni. Inoltre, in pazienti di età giovane-adulta i risultati terapeutici sarebbero migliori e più definitivi, rispetto ai pazienti anziani. Attualmente, alla luce dei dati fino a oggi acquisiti, non siamo in grado di stabilire come l’O3 contribuisca a regolare e/o inibire la trasmissione del segnale algico verso il sistema nervoso centrale. Inoltre, le applicazioni di O3 avrebbero e indurrebbero un sostanziale aiuto al tropismo alterato dei tessuti orali affetti da SBB, dimostrando di conseguenza un possibile ruolo antalgico. Tuttavia, il paziente affetto da SBB è da considerare particolarmente recettivo a nuove metodiche terapeutiche volte alla risoluzione della sua sintomatologia dolorosa. Sono quindi da considerare i possibili effetti placebo. Dal punto di vista clinico, riteniamo più utile affiancare l’O3 a terapie di tipo chirurgico in cui ci si attende una rigenerazione dei tessuti, una diminuzione delle complicanze post-intervento e una miglior attivazione dei processi di guarigione.
Nei protocolli clinici di sperimentazione inerenti alla MP, l’utilizzo di O3 locale indurrebbe una sostanziale risoluzione del quadro sintomatologico e clinico. Si ipotizza che gli effetti antinfiammatori, immunomodulati ed eutrofici possano contribuire alla proliferazione delle cellule dell’attacco epiteliale presumibilmente grazie all’attivazione di fattori di crescita e a una rimodulazione del tropismo loco-regionale. Considerando la MP una patologia sito-specifica, i risultati terapeutici da noi ottenuti sembrerebbero essere influenzati dai diversi fattori locali che favorirebbero, dopo il trattamento, lo sviluppo di nuovi focolai infettivi. Sono da considerare inoltre le spiccate attività antimicrobiche locali dell’O3, in grado di soddisfare positivamente gli stessi processi riparativi e di diminuire le componenti irritative locali. Attualmente non siamo in grado di stabilire se i risultati ottenuti nell’ambito del trattamento della MP, siano risultati definibili “a lungo termine”.

Conclusioni

L’utilizzo dell’O3-terapia potrebbe essere considerata un ottimo ausilio clinico e terapeutico per la risoluzione di molte problematiche nell’ambito della patologia dei tessuti duri e molli del cavo orale. Le possibili applicazioni nel settore e i possibili risvolti positivi sono da considerare soprattutto in quelle patologie dove i mezzi terapeutici tradizionali a nostra disposizione possono considerarsi ancora non sufficientemente idonei. È il caso della SBB o dei dolori atipici oro-maxillo-facciali dove numerose teorie e protocolli attivati in altre sedi non hanno mai dato indicazioni terapeutiche e linee guida soddisfacenti. Oltremodo, le terapie nella SBB, devono essere messe in relazione con una soglia emozionale alterata e con la tipologia comportamentale del soggetto. Valutando la progressione e la storia clinica della SBB, l’assenza di lesioni istopatologiche tissutali, la sintomatologia dolorosa urente, le frequenti condizioni psico-emozionali e la responsività variabile nei diversi trattamenti farmacologici locali e sistemici, l’OzonyTron® e l’O3-terapia locale possono essere utilizzati vantaggiosamente come presidio primario o di supporto ad altri tipi di terapia per migliorare la compliance terapeutica. Il trattamento farmacologico e/o chirurgico potrebbe, quindi, essere accostato a trattamenti locali che darebbero un miglioramento del tropismo dei tessuti lesionati o sofferenti. In conclusione, possiamo affermare che l’utilizzo di un presidio terapeutico come l’OzonyTron® potrebbe essere utile nel trattamento di patologie cronico-degenerative come la SBB, patologie infiammatorie e disturbi circolatori a carico dell’apparato stomatognatico. Tuttavia sarà necessario ampliare ulteriormente la nostra casistica clinica, promovendo un protocollo di ricerca più specifico con modalità e finalità sempre più adeguate con altre esperienze di Autori e scuole di pensiero. Oltremodo, la valutazione dei risultati clinici, attraverso lo studio dell’utilizzo dell’apparecchiatura OzonyTron®, dovrà in futuro essere confrontata e approfondita con studi isto-morfologici dei tessuti trattati, con analisi microbiologiche delle zone esposte all’O3 e rapportata con eventuali problematiche relative ai possibili effetti tossici determinati dall’utilizzo di O3 stesso.

Riassunto

L’ozono (O3) è una forma allotropica instabile dell’ossigeno. Le proprietà chimiche dell’O3 vengono sfruttate in ambito sia industriale sia medico. L’ozonoterapia locale vedrebbe diverse possibilità di utilizzo in campo odontostomatologico. I meccanismi nei confronti di una flora microbica potenzialmente patogena, gli effetti immunomodulanti ed eutrofici giustificherebbero le potenzialità terapeutiche e preventive in ambito conservativo, endodontico, nelle terapie parodontali, in chirurgia e nelle terapie delle affezioni dei tessuti molli e di rivestimento. Le nostre esperienze preliminari hanno previsto la selezione di 3 gruppi distinti di pazienti con quadri clinici di sindrome della bocca bruciante (SBB), di parodontopatie attive in corso e di patologie algiche atipiche oro-facciali. Attraverso un’apparecchiatura in grado di generare e veicolare O3 localmente, abbiamo valutato gli effetti terapeutici e le evoluzioni dei quadri clinici e sintomatologici.
Nei pazienti del gruppo 1 circa il 60% dei pazienti avrebbe riferito una regressione della sintomatologia locale urente dopo applicazioni con O3.
Nel gruppo 2 i risultati ottenuti sembrerebbero più importanti. Una significativa diminuzione della profondità di sondaggio in tempi relativamente brevi, dimostrerebbe le capacità antinfiammatorie locali e le attività trofico-metaboliche dell’O3 medicale. Abbiamo potuto rilevare un’evoluzione del quadro clinico (aumento della profondità di sondaggio) solo nel 2% dei siti trattati.
Nei pazienti del gruppo 3, affetti da patologie dolorose atipiche in sede oro-maxillo-facciale, il 20% avrebbe riferito una regressione significativa della sintomatologia, soprattutto nelle sedi post-estrattive. Parimenti, il 43% di pazienti del gruppo 3, al termine del follow-up non avrebbe ottenuto nessun miglioramento sintomatologico dopo applicazioni locali con O3.
Quadri di disestesia e/o parestesia, non presentavano significativi miglioramenti al termine del follow-up di ricerca. Tali risultati vanno interpretati come dati preliminari che necessitano di ulteriori approfondimenti e confronti con altre scuole di pensiero.

Parole chiave

Ozono
Algie atipiche Parodontopatie
Sindrome della bocca bruciante (SBB)

Abstract. Ozone-therapy in dentistry: preliminary experiences

Ozone (O3) is a allotropic form of instable oxygen. Its chemical properties are exploited both in the industry and in medicine. Local O3therapy could be used in several oral and dental diseases: its biochemical properties acting on potentially pathogenic species together with immuno-modulating and eutrophic effects might justify its use both in therapy and in preventive dentistry. Our preliminary clinical experiences was carried on a sample of 56 patients affected by Burning Mouth Syndrome, active periodontal disease and atypical orofacial pain. We evaluated therapeutic effects and clinical evolution using a new equipment to generate and conduct locally O3.
In Group 1, 60% of patients reported a decrease of burning symptoms.
In Group 2, a significant reduction of probing depth in relatively short times, proved the local antiinflammatory and eutrophic activities of O3.
In Group 3, 20% of the patients with atypical orofacial pain reported an important regression of symptoms, first of all in post-extractive sites; while 43% did not show any improvement.
These clinical results need further investigations and must be compared with other therapeutic experiences.

Keywords

Ozone
Atypical oral facial pain Periodontal diseases
Burning Mouth Syndrome (BMS)

 

 

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PREVENZIONE NELLE NEOPLASIE

L'articolo riportato di seguito nasce con la collaborazione di uno dei medici dentisti del nostro Centro Dentistico, dott. Massimiliano De Biase, con l'Ambulatorio di Patologia e Medicina Orale della Clinica Odontoiatrica e Stomatologica dell’Università degli Studi di Milano - Istituti Clinici di Perfezionamento.

 

Prevenzione delle lesioni orali displastiche

 
  Il ruolo dell’igienista dentale

C. Batia, S. Batia
M. De Biase, *G. Farronato
F. Spadari
Università degli Studi di Milano Istituti Clinici di Perfezionamento ICP - Milano
Clinica Odontoiatrica e Stomatologica
Direttore: prof. F. Santoro Cattedra di Ortognatodonzia Titolare: prof. G. Farronato
*Ambulatorio di Patologia e Medicina orale
Titolare: prof. F. Spadari

 

Le precancerosi delle mucose del cavo orale rappresentano un campo della stomatologia ancora sottoposto a revisioni e a studi clinico-epidemiologici. A tutt’oggi sia l’inquadramento nosologico, sia le difficoltà cliniche e diagnostiche rendono le precancerosi orali un campo ancora arduo e di difficile approccio per i diversi specialisti delle svariate discipline medico-chirurgiche (odontostomatologo, otorinolaringoiatra, dermatologo ecc). L’igienista è molte volte la figura professionale che per prima, durante le manovre di profilassi, può richiamare l’attenzione dell’odontoiatra verso una lesione sospetta che si può ritenere potenzialmente maligna. Scopo del lavoro è quello di presentare sinteticamente gli aspetti clinici, istopatologici e preventivi delle precancerosi orali, in modo tale che l’igienista dentale possa essere in grado di “segnalare” la presenza di una lesione ritenuta “sospetta” all’odontoiatra. Con il termine di precancerosi si definisce uno stato clinico associato a un rischio di sviluppare un cancro significativamente superiore a una condizione di “normalità”. La lesione precancerosa è pertanto un’anomalia tissutale e/o cellulare che può evolvere verso una neoplasia come conseguenza di una serie di eventi a carico della popolazione cellulare sottoposta a uno stimolo oncogeno.

Epidemiologia

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS ha reso noto che nell’anno 1992 i tumori maligni della testa e del collo rappresentano, a livello mondiale, circa il 10% dei tumori maligni negli uomini e il 4% nelle donne. Tuttavia, le variazioni nella loro incidenza e mortalità sono molto marcate, con i tassi più elevati in India (1) e Francia settentrionale. In Italia, nei primi anni Novanta, si stima che i nuovi casi di tumore maligno del cavo orale e faringe siano stati all’anno circa 4600 negli uomini e 1300 nelle donne. Le cifre corrispondenti per carcinoma della laringe sono state 5000 negli uomini e 300 nelle donne. In Italia i tassi di incidenza sono più elevati nelle regioni settentrionali rispetto a quelle centromeridionali e insulari sia per il carcinoma del cavo orale e della faringe (di circa tre volte) sia per quello della laringe (di circa due volte).

A livello epidemiologico non è facile distinguere accuratamente le differenti sedi del tumore maligno del cavo orale (lingua, ghiandole salivari, gengive, pavimento della bocca e palato) e della faringe (oro-faringe, rino-faringe e ipo-faringe). I tumori maligni del cavo orale sono all’anno circa 8,2 per 100.000 negli uomini e 2,8 nelle donne, cioè, rispettivamente, il 25% e il 53% del totale della testa e collo. Per la faringe (rino-faringe compresa) i tassi sono 7,5 per 100.000 negli uomini e 1,5 nelle donne (con un eccesso maschile superiore di quanto osservato per il cavo orale). La massima differenza tra i due sessi si conferma per il carcinoma della laringe (19,8 per 100.000 negli uomini e 1,5 nelle donne). I tumori maligni della lingua e del resto della bocca all’incirca si equivalgono, mentre i tumori maligni dell’oro-faringe sono circa una volta e mezzo più frequenti di quelli dell’ipofaringe. Il carcinoma della laringe è più frequente di quello del cavo orale e della faringe, ma a causa di tendenze opposte negli ultimi vent’anni (in discesa il primo, in crescita i secondi) tale differenza è in diminuzione (2).

Localizzazione

Le sedi maggiormente interessate dal carcinoma orale vengono rappresentati nel grafico di figura 1 (3).

Nell’arco della vita, la cellula va incontro a una serie di cambiamenti adattativi, rappresentati da una crescita e una possibile differenziazione sia degli elementi cellulari che dei tessuti. Gli elementi e gli apparati cellulari sono in grado di sintetizzare nuove proteine, regolare la presenza o l’assenza di specifici recettori di membrana, di modificare l’espressione genica e infine controllare e programmare la propria morte, processo definito di apoptosi.

Il processo di cancerogenesi, cioè nel passaggio da cellula normale a cellula neoplastica, nasce dall’alterazione di uno o più di questi sistemi e non è caratterizzato da un susseguirsi di eventi eclatanti e ben distinti tra di loro, ma è segnato solitamente da una velata progressione, a più stadi in cui il passaggio da self a non self, da normale a patologico non è facilmente evidenziabile. La degenerazione delle lesioni precancerose, può indurre la comparsa del carcinoma squamocellulare.

La prognosi dei pazienti affetti da carcinoma squamocellulare del cavo orale o più genericamente della testa e del collo non è significativamente migliorata negli ultimi anni nonostante il potenziamento dei mezzi diagnostici, degli approcci terapeutici e delle campagne di prevenzione primaria. Tale insuccesso clinico deriva essenzialmente dalla marcata eterogeneità del comportamento biologico di questi tumori, conseguente all’accumulo, da parte di un clone cellulare, di mutazioni geniche multiple, frequentemente diverse da tumore a tumore. Inoltre, la mancanza di un approccio diagnostico-terapeutico corretto e il ritardo nel riconoscimento delle lesioni possono influire di molto sugli stadi prognostici e le possibilità di sopravvivenza.

 

 
La cancerogenesi 

La mucosa orale è formata da un epitelio squamoso stratificato che poggia sulla lamina propria e sulla sottomucosa. L’epitelio consiste di uno strato basale, di uno strato spinoso, di uno strato granuloso e di uno strato esterno corneificato. La mucosa orale si divide in mucosa di rivestimento meno cheratinizzata (versante vestibolare delle labbra, mucosa vestibolare, pavimento orale, ventre linguale e palato molle) e mucosa masticatoria più cheratinizzata (bordo vermiglio delle labbra, gengiva, dorso linguale e palato duro).

I principali fattori irritativi legati alla precancerosi orali possono essere sia di tipo meccanico o chimico sia di origine esogena che endogena (tabella I).

 


Tra i fattori meccanici possiamo annoverare sollecitazioni meccaniche che possono essere causate da protesi e/o restauri incongrui, elementi dentari fratturati o da disgnazie. Il tessuto cronicamente sollecitato, nel tempo tende a reagire a questo stimolo. La risposta della mucosa può interessare l’epitelio (da una condizione di semplice ipercheratosi a una forma di displa- sia più o meno grave), il connetti- vo (fibromatosi) o l’epitelio e il connettivo.

I fattori irritativi di tipo chimico sono rappresentati dai prodotti di combustione del tabacco e da prodotti del catabolismo di bevande alcoliche. In quest’ultima condizione non è infrequente che vi sia una concomitanza con una epatopatia cronica progressiva alcolica. Il fumo rappresenta di gran lunga la causa principale delle neoplasie maligne della testa e del collo dei paesi sviluppati.

Il rischio di sviluppare tumori maligni in soggetti che fumano meno di 15 sigarette al giorno è di 3-4 volte aumentato rispetto ai non fumatori, mentre per livelli di fumo maggiori sale da 9-10 volte. Tale rischio, tuttavia, declina sostanzialmente circa dieci anni dopo la cessazione del fumo. Per i tumori maligni del cavo orale l’associazione è forte oltre che con il consumo di sigarette, con l’uso di pipa e sigari (4, 5), nonché nelle aree dell’Asia dove questa abitudine è diffusa, con la masticazione di noce e foglie di betel. Pertanto, questi fattori irritativi, isolatamente o più frequentemente in sinergismo, sono i responsabili di quel processo che viene definito adattamento cellulare. L’adattamento cellulare a uno o più stimoli può indurre un danno cellulare che può evolvere verso un lungo adattamento cellulare, una possibile evoluzione verso la morte programmata della cellula (apoptosi), oppure verso una degenerazione progressiva di tipo irreversibile.

Le lesioni orali possono progredire in direzione di una forma maligna attraverso stadi intermedi rappresentati dall’ipercheratosi, iper-ortocheratosi, iper-paracheratosi, iper orto-para-charatosi, stadi di metaplasia, di displasia caratterizzata da diversi gradi, fino alla vera anaplasia che induce la formazione del carcinoma in situ.

Displasia

Il termine displasia indica la crescita disorganizzata degli elementi cellulari. Possono essere descritti vari gradi di displasia in presenza di alterazioni epiteliali lievi, moderate e gravi (tab. 2). La displasia è suddivisa in tre gradi, perché nel concetto di displasia c’è sempre la possibilità che il quadro patologico possa scomparire e ritornare a uno stato fisiologico, soprattutto se viene a cessare lo stimolo promuovente. Le displasie epiteliali della mucosa orale possono essere identificate anche con il termine di Oral Intraepithelial Neoplasia (OIN), che prevede tre gradi differenziativi dal punto di vista istologico riportati nella tabella II. La determinazione del grado di displasia è un’operazione di tipo soggettivo e serve a indicare che le alterazioni non sono abbastanza severe da permettere una diagnosi di neoplasia.

Le caratteristiche specifiche della displasia comprendono: 

a) interdigitazione epiteliale a goccia,
b) iperplasia dello strato basale,
c) stratificazione irregolare,
d) figure mitotiche aumentate di numero di aspetto anomalo,
e) presenza nello strato spinoso, di singoli elementi o gruppi di cellule cheratinizzate,
f ) alterazioni del rapporto nucleo/citoplasma,
g) perdita o diminuzione dell’adesione intercellulare,
h) ipercromatismo cellulare (6) (tabella III).

 

 

 

Carcinoma squamocellulare

La degenerazione delle lesioni pre-cancerose induce la comparsa del carcinoma squamocellulare. La prognosi dei pazienti affetti da carcinoma squamocellulare della testa e del collo non è significativamente migliorata negli ultimi anni nonostante il potenziamento dei mezzi diagnostici e degli approcci terapeutici. Tale insuccesso clinico deriva essenzialmente dalla marcata eterogeneità del comportamento biologico di questi tumori, conseguente all’accumulo, da parte di un clone cellulare, di mutazioni geniche multiple, frequentemente diverse da tumore a tumore. È pertanto l’effetto combinato, non solo sommatorio, delle diverse e molteplici alterazioni geniche che conferisce al clone tumorale le specifiche proprietà biologiche, mentre pressoché nessuna alterazione singolarmente ha un effetto preponderante nel determinare tali proprietà. La ricerca e lo studio di marker biologici fenotipici e funzionali con prospettive clinico-applicative si è posta come scopo l’acquisizione di informazioni di base per meglio conoscere e comprendere la storia naturale preclinica e clinica del tumore, senza trascurare gli aspetti applicativi relativi all’identificazione di indicatori prognostici e di indicatori di risposta ai diversi tipi di trattamento locale o sistemico.

Durante successive moltiplicazioni l’instabilità genetica delle cellule tumorali si traduce in anomalie qualitative e quantitative dell’assetto cromosomico, con variazioni del contenuto totale di DNA nucleare. Il gene onco-soppressore p53 è il più diffusamente mutato nei tumori umani e anche il più studiato per il suo supposto coinvolgimento in diverse funzioni tra cui la regolazione del ciclo cellulare e il processo di morte programmata o apoptosi. Dai diversi Autori, viene riportata nei carcinomi squamocellulari della testa e del collo un’elevata frequenza di mutazioni del gene (60-70%) e di overespressione della proteina (5080%). Inoltre, sia le mutazioni che l’iper-espressione compaiono precocemente nelle lesioni precancerose (7).
 

Stati di precancerosi

Buona parte dei carcinomi del cavo orale insorge su manifestazioni già note come stati precancerosi (leucoplachie, eritroplasia, lichen, fibrosi sottomucosa). Approssimativamente tale quota può essere stimata fra il 15 e il 40%. La degenerazione può avvenire anche dopo molti anni (15-30) ed è tanto più probabile quanto minore è l’età di comparsa (tabella V).

Le manifestazioni cliniche più comuni di stati di precancerosi delle mucose orali insorgono, più comunemente, come una variazione di colore delle mucose. Distinguiamo lesioni bianche, rosse e bianco-rosse.
La leucoplachia del cavo orale (fig. 3) è una lesione che non può essere attribuita né clinicamente né istologicamente ad altra malattia. È una lesione bianca non raschiabile che colpisce le mucose orali, ma in letteratura sono descritte lesioni simili anche a livello delle regioni anali e genitali.
Istologicamente può presentarsi come una semplice ipercheratosi, ma può presentare gradi di displasia con diversi livelli di gravità nascondendo lesioni preinvasive nel 24% dei casi, come neoplasie intraepiteliali, e persino il Carcinoma del Cavo Orale CCO (fig. 4). Dal punto di vista biologico e della storia naturale, il CCO presenta tre tipologie diverse:
1.    vegetante, esofitico che si accresce verso il cavo orale, con andamento biologico più mite, più facilmente eradicabile, con rare recidive e metastasi;
2.    ulcerato, infiltrante profondamente i tessuti, biologicamente più maligno e, a seconda delle sedi, facilmente diffusibile per via linfatica ed ematica;
3.    nodulare o a placca, anch’essi in-vasivi, con aspetti macroscopici molto simili a quelli della leucoplachia, dell’eritroleucoplachia o dell’eritroplasia.
Questo terzo tipo di CCO è certamente il più ambiguo e talora disconosciuto, mentre per gli altri due tipi di neoplasia la diagnosi di neoplasia è frequentemente avanzata.
Per tutte queste ragioni è fondamentale svolgere un’appropriata diagnosi precoce del CCO, sia nella forma a placca che in quelle iniziali, ma anche soprattutto quello di favorire il possibile discernimento di quelle leucoplachie e/o delle malattie precancerose del cavo orale e che in qualche modo e in misura diversa precorrono il CCO.
Le sedi più comunemente colpite sono la mucosa geniena, la commissura retrolabiale, le mucose gengivali e la lingua.
La diagnosi differenziale va posta con le altre più comuni lesioni bianche che colpiscono le mucose della cavità orale sia a carattere infettivo, a eziologia fungina, o virale (vedi leucoplachia villosa), sia a carattere auto-immunitario (lichen orale) (8).
Tuttavia, alcune forme di lichen planus orale, in particolare nelle forme atrofico-erosive e le stesse lesioni lichenoidi del cavo orale sembrano essere maggiormente implicate in evoluzioni in senso neoplastico (9).
L’eritroplachia o eritroplasia di Queyrat si presenta come un’area eritematosa, indistinta e di aspetto vellutato. È possibile che vi sia concomitanza con aree biancastre. In questo caso la lesione è definibile eritro-leucoplachia. Il potenziale neoplastico risulta nettamente superiore alla leucoplachia tanto che viene inquadrata come una precancerosi obbligatoria.
Vengono classificate anche come lesioni potenzialmente maligne la stomatite nicotinica e la cheilite attinica (14). Quadri clinici legati a candidosi croniche, infezioni virali in particolare da Human Papilloma Virus (HPV) (10), o a sindromi sistemiche come nell’AIDS, nella sindrome di Plummer-Vinson (o disfagia sideropenica) e nelle distrofie mucose in pazienti epatopatici ed etilisti sembrano predisporre maggiormente all’instaurarsi di carcinomi mucosi.

Aspetti diagnostici nelle precancerosi orali

Affinché si possa riconoscere precocemente una lesione potenzialmente maligna, il clinico deve essere in grado di adottare un algoritmo clinico-decisionale e diagnostico, caratterizzato da più stadi, che possa essere utile sia al riconoscimento delle lesioni precancerosi stesse, sia a escludere altre manifestazioni patologiche con aspetti clinici simili (tabella V). Le metodiche di indagine sono diverse e immediate e nello stesso tempo fondamentali per una diagnosi che potrebbe rivelarsi vitale.
La raccolta dettagliata dei dati anamnestici del paziente, l’esame obbiettivo locale (EOL) più una serie di esami collaterali molto importanti come l’esame citologico e isto-morfologico, possono essere considerati degli strumenti che faciliteranno la formulazione di una diagnosi appropriata da parte dell’odontoiatra. Solo dopo aver completato l’esame obiettivo e a integrazione di esso, si ricorre a più complessi mezzi di indagine utili per porre una diagnosi.
L’esame citologico ci consente di analizzare le tipologie di cellule presenti sulla superficie della lesione. Il prelievo viene effettuato attraverso uno spazzolino da paptest, strisciato su un vetrino sterile e poi fissato. Non può essere considerato un esame sensibile poiché possono essere omesse eventuali atipie presenti negli strati più profondi della lesione.
L’utilizzo di coloranti vitali con il blu di toluidina è una metodica immediata denominata test di Mashberg (fig. 5). Il blu di toluidina è un colorante vitale affine per gli acidi nucleici che permette l’identificazione di aree di maggior rischio. Il procedimento consiste in uno sciacquo prima con acqua, in seguito con una soluzione di acido acetico al 3% per quaranta secondi, quindi si applica con un pennello la colorazione vitale sul sito di indagine. Il paziente esegue un ulteriore sciacquo in mezzo bicchiere d’acqua con un terzo di blu di toluidina.
La positività al blu di toluidina è indice di una possibile atipia cellulare (11-14).
Nei siti rilevati dalla colorazione l’odontoiatra potrà eseguire una biopsia in modo tale che il reperto anatomico potrà essere valutato in laboratorio.
 
L’esame istopatologico può dare conferma all’ipotesi diagnostica. La biopsia può essere incisionale, quindi viene rilevata solo una piccola parte della lesione, o escissionale dove è possibile eliminare in toto la lesione.
Lo strumentario indispensabile comprende: forbici, bisturi con lama del 15 o 12, bisturi circolari monouso definiti punch, con diametri di 0,4-0,6-0,8, può essere utile la curetta di Stiefel utilizzata in dermatologia, tale strumento mostra un margine piatto e smussato, da utilizzarsi per lesioni su superfici linguali, pinzetta anatomica, strumenti rotanti per le biopsie ossee o pinze ossifere, contenitori con formalina tamponata al 4%. Le suture devono essere in seta, non riassorbibili, da rimuovere circa una settimana dopo. L’anestesia va effettuata senza vasocostrittore, tranne nei casi di copioso sanguinamento.
 Il reperto anatomico dovrà essere conservato in formalina al 4% (aldeide formica) in proporzioni di due terzi di acqua e un terzo di formalina. La formalina blocca il metabolismo dei tessuti e non altera le caratteristiche istologiche. La metodica più esatta da eseguire sarebbe riuscire a unire il connettivo della lesione su una carta assorbente, in tal modo il patologo è in condizione di poter valutare l’epitelio. Come norma, qualunque lesione sospetta che non regredisce entro quindici giorni dovrebbe essere analizzata in laboratorio, poiché il ciclo vitale dei cheratinociti che costituiscono la parte più superficiale dell’epitelio avviene in questo tempo.
È importante raccogliere un’anamnesi approfondita del paziente, ricostruire attraverso la sua storia le sedi iniziali e secondarie, le modalità di presentazione clinica e l’evoluzione delle lesioni e cercarne conferma nella visita medica, l’assunzione di eventuali farmaci e la concomitanza di patologie sistemiche in atto.


 

Conclusioni

La diagnosi precoce delle lesioni precancerose che possono evolvere verso un carcinoma del cavo orale è un elemento prezioso della responsabilità etico professionale dell’operatore. La disinformazione della popolazione a riguardo dei presidi preventivi dei vari fattori di rischio, il mancato riconoscimento delle displasie epiteliali e del carcinoma del cavo orale in fase iniziale da parte degli operatori e specialisti unitamente al ritardo con cui si giunge alla diagnosi, non concedono grandi speranze di successi terapeutici
Per tutte queste ragioni appare evidente come, ancora oggi, l’obbiettivo di maggior interesse e assolutamente indispensabile sia quello di formulare una corretta diagnosi precoce delle forme displastiche e dello stesso carcinoma delle mucose orali. In questo tentativo l’igienista dentale e lo stesso odontoiatra giocano un ruolo clinico preventivo di primaria importanza. L’osservanza di precisi criteri semeiologici è, a nostro parere, di notevole ausilio per facilitare l’orientamento diagnostico di tutte quelle forme di precancerosi orali e delle stesse forme carcinomatose. Le misure terapeutiche preventive che tendono a diminuire i fattori carcinogenetici, in grado di rappresentare uno stimolo cronico, sono misure sufficienti nei casi con ridotto rischio di degenerazione:
•    la bonifica orale di traumi (micro traumi da protesi incongrue, radici, bordi taglienti, abitudini viziate) e flogosi locali (carenza di igiene, infezioni batteriche micotiche);
•    l’eliminazione dei fattori generali di rischio (fumo, alcol, spezie, carenza di vitamine e di oligoelementi, allergie alimentari, stress, diabete, epatopatia);
•    l’identificazione e la terapia di patologie sistemiche con manifestazioni orali precancerose.
L’asportazione chirurgica è sempre consigliata, ma può essere dilazionata in presenza di lesioni a basso rischio su richiesta del paziente; è, invece, necessaria nei casi suggestivi di elevato potenziale di degenerazione della lesione con caratteri clinici di malignità o referto istopatologico di displasia in grado elevato. L’assunzione di antiossidanti (15) (vitamina A ed E, retinoidi, selenio...) favorisce la regressione nella leucoplachia e delle lesioni precancerose della mucosa orale, prevenendo la loro evoluzione verso il carcinoma del cavo orale, ma il trattamento di predilezione per i casi è sempre quello chirurgico, recentemente affiancato dalla crioe laser-terapia, dall’uso topico di pomata contenente 5fluorouracile,dall’infiltrazione con bleomicina e dalla somministrazione di beta-interferone.
L’applicazione di talune direttive anatomo-cliniche dovrebbero portare a una selezione dei pazienti a rischio o con lesioni dubbie, che dovranno essere sottoposti successivamente ad accertamenti istologici e a ulteriori indagini clinicodiagnostiche. In questo modo è auspicabile una riduzione sensibi le delle forme neoplastiche e precancerose, all’opportunità di una terapia adeguata e tempestiva e a un calo dei tassi di mortalità.

Riassunto

Ancora oggi la diagnosi precoce delle lesioni precancerose, che potrebbero evolvere verso potenziali neoplasie, è la più importante forma di prevenzione nei confronti di tali lesioni.
La figura dell’igienista dentale può essere compresa tra coloro che per primi vengono a contatto diretto con il paziente e che quindi possono dare un fondamentale contributo nella diagnosi delle lesioni precancerose del cavo orale potenzialmente maligne.
La conoscenza e l’utilizzo di particolari manovre profilattiche possono essere fondamentali nella diagnosi di lesioni che possono essere ritenute sospette.
Abbiamo voluto ricordare brevemente quali sono le cause e le trasformazioni istopatologiche che le cellule subiscono nell’evoluzione neoplastica e la fisiologica composizione a livello istologico della mucosa orale.
Le manovre profilattiche di maggior rilevanza vengono descritte nei loro aspetti fondamentali.
La conoscenza di tali metodiche di indagine deve essere percepita come obbligo morale nei confronti della persona come uomo e non come paziente.
 

Parole chiave

Diagnosi precoce
Displasia
Biopsia
Tumore bocca
 

Abstract

The role of the dental hygienist in precancerous lesions prevention. Today it’s important an early diagnosis about precancerous lesions, because they could have a development towards malignant injuries. Usually, the dental hygienist has a first contact with a patient, in this way he gives an important contribute for checking of precancerous lesions.
The knowledge and an appropriate use of peculiar methodologies can be extremely significant for the diagnosis of suspicious lesions. The Authors remind, in a few words, some reasons and histological mutations, sometimes they produce damages and changes among different cells and promote a malignant transformation of them. In a simple way, the Authors would explain some methods to have a first diagnosis of oral lesions. The knowledge of these manners is an important moral obligation towards people.

Key words

Early screening
Dysplasia
Biopsy
 

Bibliografia

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